Header Ads

Quattro mesi con una coppia di ambasciatori fiorentini a metà del ‘400.




Non so voi, ma personalmente ho sempre immaginato gli ambasciatori come delle persone in abiti lunghi e sfarzosi, intenti a scrivere missive, sorseggiare del buon vino con gli altri ambasciatori ed altre personalità all'interno di sfarzose dimore; niente di più facile ed agevole, confrontando la loro vita a  quelle di altre figure che vivevano nel quattrocento, dal soldato semplice al contadino, ect.

Niente di più sbagliato.


Gli ambasciatori, oltre a saper scrivere ed ascoltare attentamente, dovevano avere delle doti molto importanti: una pazienza innata, capacità di adattamento, grande perseveranza e tanta ma tanta fiducia nei loro signori. In questo articolo vorrei raccontare la storia di due ambasciatori inviati dalla Signoria di Firenze a Napoli, alla corte di Re Alfonso V d’Aragona, detto il Magnanimo.

Partiamo dal contesto storico  nel quale i due si sono trovati ad operare; nel 1442, Papa Eugenio IV diede vita alla Lega Santa per liberarsi di Francesco Sforza che già dall'anno precedente con una fulminea campagna militare gli aveva sottratto gran parte dei suoi possedimenti nel centro Italia; questa alleanza formata dal sovrano Alfonso V di Aragona e dal suocero dello Sforza, il Duca Filippo Maria Visconti signore di Milano, si contrapponeva al duo formato dalla Signoria di Firenze e dalla Serenissima Repubblica di Venezia, le quali per ovvi motivi economici e politici sostenevano il condottiero Sforzesco.

Arriviamo così al 1446, anno in cui lo Sforza vede sfumare tutte le sue conquiste nel centro Italia ed il Papa rifarsi su Firenze, concedendo all'Aragona il beneplacito per attaccare la signoria toscana.  Giannozzo Pandolfini e Francesco Sacchetti, così si chiamano i due ambasciatori, arrivano a Napoli l’undici di Aprile del 1450, con lo scopo di raggiungere un accordo di pace.”Giugnemo qui a salvamento per la gratia di Dio adì XI. Trovamo la maiestà del re averci ordinata la stança et che tucti i baroni et signori ci vinisseno incontro et così feciono”.

I presupposti per una buona trattativa ci sono, il sovrano sembra ben disposto e gli ambasciatori fanno sapere di essere pronti ad incontrare il Re, che però in primavera ed in estate si trasferiva a Torre del Greco, dove abitava la sua amata Lucrezia d’Alagno.
Il giorno seguente incontrano il sovrano il quale “ Ricevecteci con una grandissima humanità et volle parlassimo a sedere, il quale acto secondo sentimo rade volte o non mai ha usato di fare ad alcuni ambasciadori, faccendoci una risposta tanto grata che secondo il parere di questi signori mai più ad alcuno ambasciadore d’alcuna signoria gle l’ànno udito far tale”.

Con missiva datata 18 aprile, i due scrivono di essere stati invitati ad una battuta di caccia nei dintorni di Napoli, descrivono così lo sfarzo e la potenza che il Re intende dimostrare a tutti gli ambasciatori e signori presenti nella sua corte.
" Succedecte che la mactina seguente, cioè adi' XVI, volle la sua maestà andassimo a vedere una chaccia la quale fece fare con tucte le solempnita' et magnificentie possibili, dove aparechio' suoi padiglioni, argentiere, instrumenti, cantori et altre cose, in modo fu una maraviglia".

Purtroppo alle buone impressioni non seguono i fatti, il sovrano non sembra accennare ad abbassare le sue pretese e gli ambasciatori si trovano in difficoltà, costretti ad abbozzare ad ogni sua richiesta e seguirlo nelle sue battute di caccia e nel suo continuo peregrinare per il regno; li troviamo dopo due settimane ad Aversa dove “Mentre che andavamo alla sua  maestà trovamo per la via ci mandava a donare uno cinghiale, nella chaccia del quale el duca di Calavria suo figluolo s’aveva facto grande male a una spalla perchè gl’era caduto il cavallo addosso; pure si spera starà bene”.

Il 9 maggio I due sono ancora ad Aversa, le cose vanno di male in peggio quando si cerca di inserire negli accordi di pace anche i signori romagnoli I quali avevano “tradito” l’Aragona entrando ai servizi di Firenze “Venimo all’altre parti contenute né capitoli, né quali si comprende per la domanda vi sia pure alcuna difficultà, maxime dove dice non possiamo difendere o dare per raccomandati alcuni che gli dovessino alcuna cosa, et questo s’intende dica per lo signor Sigismondo Malatesti et il signor Astore o alri simili”.

Passano altri due mesi, nei quali i due fiorentini seguono, fino in Molise e poi in Abruzzo, il sovrano, il quale sembra più prestare attenzione alla caccia “Trovamo la maestà del re a chaccia con molti signori et di sua mano in sulla giunta nostra haveva amaçato uno orso”; la pace si allontana sempre di più, sopratutto dopo l’ingerenza del pontefice che cerca di mediare per il Conte di Piombino (il Re richiedeva un cospicuo indennizzo per alcuni fatti accaduti qualche anno prima).

Il 4 giugno scrivono da Isernia “Noi, magnifici signori, siamo qui con grandissimi disagii et non potremo seguitare la maestà del re. Racomandianci a quella pregandola humilmente, voglia horamai possiamo ripatriare, che di circa due mesi et meço che di costì partimo ne siamo stati due mesi continui a cavallo", qualche giorno dopo, il 13 giugno, inviano una missiva da Castel di Sangro “Siamo di giugno et più tosto dire di gennaio, perchè ci nevica intorno et non ci possiamo partire dal fuoco. Le stance dove siamo allogiati sarebbono più acte a strolaghi che a imbasciadori, perchè si possono bene cognoscere i corsi dei pianeti sanza andare fuori”.

Fortunatamente dopo mesi di fatiche, Pandolfini e Sacchetti riescono a trovare un accordo con Re Alfonso e il 24 giugno, scrivono da Castel di Sangro “Magnifici ec potentes domini domini nostril singularissimi etc Adì XXI a hore XXIII per Giovanni di Bologna corriere advisamo la vostra signoria come decto dì a hore XX havamo col nome di Dio conclusa pace colla maestà del re et come speravamo presto mandare la nota de capitoli”.

Gli ambasciatori sono anche a corto di denaro “Tucto, come decto è, si ricorda con fede alla vostra signoria, alla quale ci racomandiamo anche noi de nostril bisogni, che siamo, come per altra dicemo, sança dinari et in luogo che, volendo achatare, non si può”, per fortuna tutto avrà un lieto fine.

L’8 luglio il Re bandisce pubblicamente le paci ratificate con Firenze e Venezia e, a sorpresa, vuole onorare i due ambasciatori “Dipoi adì X la mactina, avendo udito la messa insieme colla sua maestà, ci chiamò alla sua presentia et quivi disse ch’egl’amava tanto la vostra città et la vostra signori ache desiderava non solamente in genere ma in spetie honorarla et magnificarla di qualunche dignità, et che intendendo la virtù et fama di meser Giannoço Pandolfini lo richiedeva et voleva che ad perpetua memoria di questa pace é fusse content che gli l’adornasse di segno militare. A Franco non diceva così perchè intendeva le sue qualità et condictioni non essere per Aventura ydonee come si richiederebbe a tale degnità, ma che bene si offereva in qualunche altra cosa a llui possibile gratificarlo. Il perchè, factosi per me Giannoço essendo sproveduto risistentia, infine constrecto dal disiderio della maestà del re, diliberai acceptare, et così nella presentia di tucti quegli signori fui facto per le sue mani cavaliere”.

Questa è la degna fine di una bella storia di vita quattrocentesca.

Fonti
"Dispacci sforzesche da Napoli I”, Istituto Italiano per gli studi filosofici, Fonti per la storia di Napoli Aragonese.


Testo e Ricerca Storica : Alberto Gatti
Powered by Blogger.